mercoledì 24 marzo 2010

UNIVERSITA' E PROFESSIONI : NON IN LINEA - di Elia Sandrini

Pubblichiamo di seguito un interessante intervento del Collega Per. Agr. Dott. Elia Sandrini, libero professionista e Presidente del Collegio dei Periti Agrari di Verona. Un fattivo contributo di idee e riflessioni sul delicato problema della riforma universitaria e dei processi di integrazione con " la professione".
Un tema culturale che interessa la categoria ( editoriale del  Per. Agr. Bottaro sul " Il perito Agrario n. 1/2010) e sul quale vogliamo aprire un dinamico confronto.
Pm. Tiraboschi

Il problema è molto semplice. In Italia si è fatto quello che in qualsiasi altro paese al mondo non si fa. In Italia, unico paese a livello europeo, è stata fatta la riforma dell'università e, quindi, degli studi universitari ancor prima della riforma delle professioni. Ma non solo, in quanto le professioni hanno dovuto adeguare i requisiti di accesso agli esami di abilitazione e, di pari passo, agli albi professionali in base ai titoli di studio sfornati dal MIUR.


Il colmo è che la riforma delle professioni in Italia non è ancora compiuta a distanza di tempo dalla riforma universitaria. C'è stato univocamente un dovuto adattamento dei regolamenti professionali degli albi per l'inclusione del laureato breve, quale nuova figura accademica e, purtroppo, professionale.

La cosa strana è che l'Italia, famosa per arrivare ultima in tutte o quasi le innovazioni normative, è stata la prima sul fronte universitario ad adeguarsi al sistema tipicamente anglosassone (bachelor + master).

A questo punto è lecito chiedersi a chi giovava e a chi è giovato un andamento riformatorio di questo tipo: completo sul profilo della preparazione universitaria con due titoli accademici (laureato triennale e laureato specializzato) e parziale, se non totalmente incompleto, su quello professionale.

Forse al mondo del lavoro? Alla richiesta di Confindustria o altre sigle di categorie lavorative? Ai vari settori lavorativi (industria, artigianato, agricoltura, commercio, servizi, ecc.? Alla sanità?

O, forse, molto più semplicemente è servito solo al mondo universitario per aprire nuove cattedre, per aprire nuove sedi decentrate (ormai tutti i capoluoghi di provincia hanno la loro sede universitaria, decentrata o non), ad assumere una serie di persone precarie da diversi anni?

La verità sappiamo tutti da che parte sta.

Non per nulla anche la qualità dei corsi di laurea triennale e la preparazione che viene fornita è di bassissima qualità.

Le Università sono state svilite del loro ruolo. Sono ormai viste da chi le frequenta (in particolare gli studenti) come un esamificio.

Forse, vien da dire, che il mondo universitario era invidioso delle Università della Terza Età che ormai si trova in tutti i Comuni italiani con più di 10.000 abitanti.

A parte le battute si dimostra ancora una volta come in Italia il mondo della formazione culturale pubblica sia lontano mille miglia dal mondo del lavoro.

Il problema non è quello di una università pubblica oppure privata. Il problema è che l'Università deve essere, come nella maggior parte del mondo e, specialmente negli USA, un'azienda che deve dare risultati economici. Si tratta di creare una competizione tra le Università convertendole in centri di ricerca dell'eccellenza, dove i risultati devono essere dati a chi le finanzia. Che sia lo Stato o i privati o entrambi non importa.

Se guardiamo all'Università italiana stiamo guardando sempre più ad una casa di riposo, dove i professori rimangono sino alla loro morte, anziché lasciare spazio ai giovani bravi e promettenti. Per fortuna non gli è permessa la sepoltura, altrimenti le sedi universitarie diventerebbero anche dei cimiteri.

Negli Usa chi vuole rimanere all'interno del mondo accademico deve essere responsabile di progetti di ricerca. E la prima volta che ti va a monte un progetto, sei fuori. Anche perchè spesso si parla di progetti da centinaia di migliaia o di milioni di dollari. E chi paga ha diritto ad avere un risultato, negativo o positivo che sia ma di altissima qualità e affidabilità.

E il privato sa dove rivolgersi. Non va a chiedere all'Università più economica (come succede in Italia), ma a quella che pur essendo la più onerosa, sa benissimo che i risultati forniti possono essere sinonimo di garanzia ed altissima qualità.

E se i giovani italiani già durante il loro iter di studi vanno all'estero si rendono immediatamente conto delle differenze, fin troppo palesi. E non pochi di questi giovani, ci ritornano all’estero e, spesso, per fermarsi per tutta la vita.

Sparare sulla croce rossa ormai non è, come diceva Rinciotti nell’articolo, criticare il sistema 3+2, ma, ahimé, è criticare l’Università italiana con tutti i suoi ormai ultradecennali problemi (dalle baronie ai concorsi truccati e predestinati, dalla semplificazione scandalosa dei programmi di studio con le lauree triennali alle prove a quiz, dai docenti pensionati che messi fuori dall’ateneo muoiono perché non sanno fare altro nella vita che occupare un posto pubblico ai giovani promettenti che alzano i tacchi per andarsene speditamente all’estero a far fruttare le loro capacità e abilità, ecc.).

Il drammatico, però, arriva anche dal mondo professionale (ordinistico e collegiale) che nel tempo, nonostante la creazione del Comitato Unitario per le Professioni, non ha saputo far sentire la sua voce nei confronti dei governi e dei ministeri come il MIUR.

Anche questo mondo sta diventando sempre più velocemente una nuova croce rossa.

Il perché è presto detto: troppi personalismi, troppi campanilismi, troppe divisioni.

Gli Ordini più avveduti (come gli Ingegneri) avevano visto lungo, sin dall’inizio, le conseguenze della riforma universitaria e sempre dall’inizio vi si erano opposti con tutte le sue forze.

La maggior parte degli Ordini e dei Collegi professionali sono invece rimasti alla finestra, fantasticando su un incremento del loro numero di iscritti sulla base del laureato triennale.

Al di là degli andamenti economici mondiali o locali, il sistema anglosassone non potrà attecchire in Italia sul fronte lavorativo, per svariati motivi. Il nostro mondo lavorativo non è specializzato come all’estero, non riconosce sotto il profilo economico il grado di studi di una persona (un dottorato di ricerca prende meno di un operatore ecologico), le organizzazioni categoriali e sindacali stanno sempre più togliendo opportunità di lavoro e competenze professionali (servizi e consulenza) al mondo delle libere professioni includendolo in quello dei Centri di Assistenza di vario genere (fiscale, previdenziale, agricolo, ecc.), i governi di centro destra e centro sinistra spalleggiano il mondo professionale solo nei momenti di campagne elettorali per poi scomparire del tutto, ecc.

Il fatto di partorire un titolo accademico triennale e poi lasciarlo in mano al mondo delle professioni perché decida come utilizzarlo, la dice lunga, molto lunga, su chi è stato l’artefice di tale gravidanza.

Affinché il titolo triennale avesse qualche speranza di successo nel nostro paese, bisognerebbe fare due cose che per noi italiani sono da fantascienza: l’abolizione del valore legale di studio e l’abolizione degli albi professionali (tutti compresi: anche notai, avvocati e medici, che più di uno voleva mantenere, nonostante l’eliminazione di tutti gli altri).

In fin dei conti già l’Unione Europea con diverse direttive e regolamenti in ambito professionale si limite a richiedere esclusivamente l’esperienza professionale di chi compila determinati progetti o valutazioni (leggasi Direttiva Habitat, Valutazioni di Impatto Ambientale, Valutazioni di Incidenza Ambientale, ecc.).

A questo punto sarebbe il mercato (domanda/offerta) a governare sotto tutti i profili e a riconoscere le capacità e i meriti delle persone sulla base delle prestazioni (servizi e consulenza) fornite.

Ma penso che questa sia pure utopia per un paese che aspira a progredire solo a suon di promesse elettorali, tanto da destra quanto da sinistra, e per un paese in cui gli interessi da tutelare sono solo quelli delle caste (Università, Partiti politici, Sindacati, Ordini/Collegi professionali, 5 regioni autonome, ecc.) e mai quelli del cittadino singolo.

Elia Sandrini



pt/2010

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